Manifesto del Comitato

In difesa della Marina Lobra

Il mare come sguardo prospettico
Una terra protesa nel mare ha inscritta nella sua stessa morfologia una vocazione al viaggio, alla scoperta, all’accoglienza. La poesia dell’incontro si fa profonda come gli abissi in cui si spingono le radici storiche e culturali di chi abita le sue rive. La ricchezza e la vastità del grande blu cui si affacciano le popolazioni d’ogni penisola è, però, anche il segno di una finitezza umana che solo esploratori e sognatori osano sfidare. Vivere sul mare significa essere immersi dentro una dimensione che è innanzitutto temporale, come quella di un astronauta nel cosmo: vuol dire sapere cosa sia il rispetto e, soprattutto, l’attesa e la gioia del riabbraccio.
È a partire dal mare, dunque, che è possibile comprendere questa terra “alla fine della terra” che è Massa Lubrense. In particolare, la chiave d’accesso alla sua dimensione più intima e ricca è nel punto di congiunzione tra mare e terra, vale a dire nelle sue marine. Le porte – fisiche, storiche, simboliche, culturali – che si dischiudono su queste colline terrazzate appoggiate sul Tirreno sono i suoi borghi marinari, i villaggi dei pescatori, quei luoghi d’imbarco o di riparo che localmente assumono spesso il nome di “portosalvo”.

La soglia di molteplici dimensioni
La Marina è soglia e, al tempo stesso, frontiera e confine: è un luogo dove storia e immaginario si fondono in un intreccio di segni altamente significanti per chi vi abita e fortemente rappresentativi per chi vi giunge in visita. La Marina è questo: una terrazza affacciata su una maestosa distesa di sequenze narrative, geografiche e culturali, oniriche e sublimate.
A Massa Lubrense la porta principale, quella che tra l’altro nomina l’intero territorio comunale, è la Marina Lobra. È la porta che apre ad un’immensa pluralità di rotte possibili, ognuna con un proprio tempo; è il punto in cui l’altrove diventa casa, ma anche quello in cui il conosciuto si fa scoperta. La Marina è uno spazio unico e irripetibile in cui mille sguardi si incrociano verso l’orizzonte, è la sintesi di conoscenze minute e dettagliate sedimentate nei secoli. È un luogo-fulcro in cui la storia e la memoria sono scolpite nella pietra, così come lo sono i ritmi della natura e il modo in cui vi si sono rapportati gli abitanti.
C’è un filo rosso che unisce tra loro tutte le generazioni che hanno vissuto e che vivono alla Lobra: il suo paesaggio, inteso come prodotto sociale plurisecolare e come tessuto connettivo tra beni naturali e culturali, ben al di là di un riduttivo catalogo di “emergenze architettoniche e archeologiche”. Si tratta di un legame che assomiglia ad un abbraccio, ma che allo stesso tempo è fragile e delicato: è nella disposizione delle case, nelle variopinte tonalità che assumono durante il giorno, nelle sinuose scalinate silenziose del paese, nel rollio delle barche nella darsena, nel ritmo a misura di bambino di quello che forse è l’ultimo borgo pedonale della Penisola Sorrentina.

Dall’arenile al cemento
Ci vuole coraggio per intaccare tutto questo, o forse spregiudicatezza storica. Non che sul territorio tutto debba essere imbalsamato e sia vietato intervenire in qualsiasi modo, al contrario! Ma i presupposti di ogni azione riguardante i luoghi dovrebbero essere consapevolezza, conoscenza, senso della misura, a loro volta indirizzati verso uno sviluppo che sia ecologicamente equilibrato, socialmente giusto, economicamente possibile e culturalmente coerente con la storia.
Oggi qualsiasi progetto edilizio produce decine di documenti burocratici ricchi di tabulati e cronologie, regolamenti e scadenze; genera centinaia di grafici e cartine, migliaia di pagine con pareri e contropareri, perfino accuratissime valutazioni d’impatto ambientale in cui si certifica che l’opera e la sua realizzazione non avranno alcuna ripercussione negativa – al massimo trascurabile – sull’area interessata. Eppure manca qualcosa di essenziale, uno studio onesto e lungimirante che analizzi l’impatto sociale della costruzione in programma.
Chi decide che una qualsiasi idea volta a trasformare profondamente il territorio sia “bene”? Chi stabilisce che un progetto altamente intrusivo sul modo di vivere di una popolazione sia “meglio”? Qualcuno si è preoccupato degli effetti di una grande opera sulle persone? O si è fissato a priori che sia certamente “equa”?
Non deve apparire strano che questo argomento non sia mai affrontato o che venga addirittura nascosto: ascoltare i pareri degli abitanti e muoversi con una politica partecipativa allungherebbe i tempi e – viene minacciato – aggraverebbe i costi, inoltre mostrare a tutti l’entità dell’opera – fisicamente sul territorio, con picchetti e misurazioni – potrebbe addirittura risultare controproducente nel caso di un lavoro imponente come quello previsto alla Marina Lobra. Chi ha consapevolezza di quanti siano 40mila metri cubi di terreno per far posto ad un parcheggio multipiano?
Ecco, allora, che i modellini in scala diventano lo strumento più usato per creare consenso: con la loro illusoria trasparenza sono decisamente più rassicuranti di qualsiasi esperienza diretta. Ma quando le ruspe cominceranno a scavare, le betoniere a colmare e le auto a congestionare, cosa resterà della Marina Lobra? Che sguardo avranno gli abitanti dinnanzi ad una torretta in stile aeroporto atterrata in mezzo al proprio porticciolo? Cosa penseranno gli ospiti arrivati fin là per cercare la decantata tranquillità del borgo? Insomma, come possono coesistere le azioni previste dalla “Ristrutturazione dell’area portuale di Marina Lobra e rimessaggio con sistemazione per la balneazione del litorale Chiaia” con i princìpi dichiarati nella sua premessa? Per gli estensori, i firmatari e i sostenitori del progetto quale significato hanno parole – ripetute decine di volte nel testo – come “ristrutturazione”, “adeguamento”, “interventi di limitata entità”, “riqualificazione”, “valorizzazione”, “bonifica”? Le «eventuali misure di compensazione» da adottare nel caso in cui «derivassero effetti negativi a seguito della trasformazione progettata» sono una rassicurazione o un motivo di preoccupazione?

Ritrovare noi stessi
Come scrive Ute Diehl, «non c’è nulla che dia la misura dello stato di salute di una società quanto il rapporto che essa riesce ad avere coi propri monumenti e col proprio paesaggio». Pertanto, forse bisognerebbe accordarsi sulle parole, magari sui concetti.
Creare un’enorme buca e riempirla di cemento e di auto è valorizzazione? Piantare una torre di vetro e alluminio in mezzo al porto è rivalutazione? Allargare la strada carrabile che a monte circonda la Marina è ottimizzazione? Forse non è altro che una morsa stritolante con degli effetti psico-sociali tutti da verificare o, possibilmente, da non verificare. La nostra idea è che l’espressione “sviluppo” significhi qualcosa di diametralmente opposto: è, innanzitutto, ragionare in termini qualitativi, piuttosto che quantitativi; è diminuire i numeri e aumentare i sorrisi, è riscoprire un rapporto armonico ed equilibrato coi luoghi, è riacquistare un modo di muoversi più rispettoso, è ritrovare dei tempi più pacati, è ricucire il rapporto tra giardini e battigia che proprio alla Marina ha (avuto) la sua più antica e massima espressione, come documentano meravigliose pitture e stampe del passato. Possiamo formulare il concetto di sviluppo nel modo seguente: fortificare quel che già c’è attraverso un recupero di consapevolezza che passa sia dal potenziamento dell’identità del luogo senza stravolgerla, sia dal recupero della sua storia, della sua particolarità, della sua diversità. Si tratta, cioè, di un processo che rifiuta la banalizzazione dell’omologazione che sta contagiando irreparabilmente l’intero comprensorio e che, piuttosto, mira a far tornare la Marina Lobra una porta aperta su altre visioni del mondo. Possibilmente più profonde, proprio come il mare lì davanti.

Una risposta a “Manifesto del Comitato

  1. Condivido e formulo i miei più sinceri e fervidi complimenti agli autori degli scritti sopra riportati!

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